Roma capitale del (non) lavoro
Roma e il lavoro
Pur non essendo in cima ai temi più dibattuti dai media quando si parla dei mali di Roma, il lavoro giovanile è diventato negli ultimi anni uno degli aspetti più controversi della città. Nonostante sia la capitale del Paese, infatti, Roma da alcuni anni non offre ai suoi giovani residenti prospettive di lavoro soddisfacenti, obbligandoli a scegliere lavori poco specializzati e malpagati in assenza di alternative.
Il dato da cui partire è quello sull'emigrazione verso l'estero, che come sappiamo, è un fenomeno che riguarda principalmente la popolazione più giovane. Il recente rapporto dell'Istat sull'immigrazione ha certificato come nel 2018 la Città Metropolitana di Roma abbia visto la cancellazione dalle anagrafi territoriali, con trasferimento all'estero, di 10 199 residenti. Per fare un rapido confronto, nel 2014 le cancellazioni erano state circa 8 000 e nel 2010 circa 4 600.
Questi numeri servono per capire come a Roma da qualche anno si sia delineato un nuovo fenomeno: quello dei giovani che decidono di emigrare per motivi di lavoro. Spesso ciò accade dopo aver completato un percorso di formazione universitaria nella Capitale, lasciando la città orfana delle competenze professionali che essa stessa ha contribuito a formare. Per evitare che questi allontanamenti per motivi lavorativi continuino, è urgente che il dibattito pubblico e politico si concentri sul perché, in una città che vanta il maggior numero di atenei - circa 20 tra pubblici e privati- d'Italia l'offerta di studio non si sposi con l'offerta di lavoro proposta.
Che a Roma il lavoro giovanile manchi in modo strutturale, lo conferma anche il dato sulla disoccupazione. Se prendiamo in considerazione i numeri che riguardano la popolazione complessiva in età lavorativa (15- 64 anni) la Capitale si pone, nonostante tutto, in una situazione leggermente migliore rispetto al panorama nazionale (9,5% contro 11,2%). Tuttavia se prendiamo in considerazione i disoccupati tra i 15 e i 24 anni, a Roma il dato è più alto (36,3%) della media nazionale (32,2%).
Occorre comprendere che si tratta di dati gravi, su cui servirebbe una riflessione collettiva, e che possono essere parzialmente spiegati attraverso un'analisi storica della composizione del mercato lavorativo romano
E' bene ricordare che la città, fin dalla sua nomina nel 1871, di cui il prossimo anno si festeggierà il 150esimo anniversario, è stata volutamente resa una "capitale tranquilla". Al contrario di altre capitali europee come Londra o Parigi, che oltre agli uffici ministeriali hanno visto fin dall'Ottocento la presenza di un robusto impianto industriale, a Roma la presenza di fabbriche è stata da sempre scoraggiata per paura di rivolte operaie. Roma doveva essere ed è una città prettamente di burocrazie e consumi.
Con gli anni, quindi i principali settori di occupazione sono stati quello pubblico e alcuni settori produttivi legati all'espansione della città e ai flussi che l'hanno attraversata, come l'edilizia, il commercio e più tardi il turismo e i servizi.
Questo ultimo settore, però, con l'avvento della globalizzazione alla fine degli anni Novanta si è riversato a Milano, data l'esigenza di stare a stretto contatto con il mondo delle imprese e della finanza che storicamente si concentrano nel capoluogo lombardo. Le maggiori opportunità del mercato del lavoro meneghino sono riflesse anche nel dato sulla disoccupazione giovanile al 24,4 %, di molto inferiore a quello romano e anche alla media italiana.
A Roma sono rimasti attivi e sono cresciuti settori occupazionali a basso valore aggiunto, come il turismo e la ristorazione. D'altro canto il settore pubblico ha da anni diminuito notevolmente la mole di assunzioni, un calo che si è accentuato ulteriormente con la crisi del "debito sovrano" del 2011 e le politiche di austerity.
Roma resiste come punto di riferimento nazionale per alcuni settori particolarmente importanti, che restano i pochi attrattivi per i giovani qualificati, come quello della cultura e dello spettacolo, che però soffrono particolarmente di fenomeni di precariato, o quello della farmaceutica e dell' high-tech, dove pure la mancanza di attenzione da parte del governo cittadino rischia di causarne il definitivo allontanamento.
Resta il potenziale inespresso dell'Agro romano, che con progetti ad hoc di agricoltura urbana biosolidale e conservazione della biodiversità, nei prossimi anni potrebbe rappresentare una sede adeguata per pratiche di innovazione e riconversione ecologica ad opera della nuova generazione.
Cosa vuol dire lavoro precario
Per rendere più chiaro l'universo del lavoro ha senso dividere gli occupati sulla base di due tipologie di contratti: i lavoratori "standard", che comprendono i dipendenti assunti con un contratto a tempo indeterminato, e i lavoratori "non standard" costituiti per lo più da: coloro che hanno un contratto di lavoro dipendente in part-time involontario, i dipendenti a termine, i subordinati, gli autonomi.
Questa distinzione ha introdotto una serie di squilibri socio-economici ai quali sono seguiti situazioni di insicurezza: sia rispetto al diritto al lavoro - gli occupati sono infatti sempre più esposti all'instabilità del mercato- sia rispetto alle forme di garanzia che si occupano solo del lavoro tradizionale. Di conseguenza i lavoratori atipici, oscillanti tra flessibilità e discontinuità, sono maggiormente soggetti alla precarietà. Ed è proprio in questa categoria che rientrano la maggior parte dei camerieri, i lavoratori dello spettacolo ed i riders, cioè le tipologie di lavoro nei quali sono maggiormente impiegati i giovani tra i 20 e i 25 anni.
I lavoratori italiani, inoltre - e in particolare quelli rientranti nella categoria dei "non standard"- vedono il loro paese spendere per il welfare una cifra superiore alla media dei paesi europei, ma questa è concentrata per l'85% su pensioni e salute, di conseguenza per le altre spese che avrebbero maggiore efficacia per la lotta contro la povertà, non rimane che il 15%.
Non esistono misure di salario minimo, che pure consentirebbero ai cittadini garanzie irrinunciabili per rientrare nel mondo del lavoro dopo aver percepito il sussidio di disoccupazione.
Dalla crisi del "debito sovrano" del 2011 con la stagione del governo tecnico di Monti fino al governo a guida Lega-M5S, moltissimi tentativi di mettere mano allo stato sociale si sono susseguiti, ma nessuna di queste politiche per il lavoro si è dimostrata essere risolutiva, in particolare per i giovani.
Ciò non fa altro che confermare un concetto che in Italia è ormai consolidato: il problema non è l'entità di risorse che vengono destinate, ma la qualità delle misure adottate. A testimonianza della loro inefficacia stanno un dato sulla povertà assoluta e un tasso di esclusione sociale tra i più alti d'Europa.
Va detto che i problemi sin qui espressi non sono certamente comparsi negli ultimi dieci anni né sono riconducibili esclusivamente alla mancanza di scelta della politica.
Le cause principali vanno ricercato nelle dinamiche storiche e macroeconomiche, come la demolizione dello stato sociale attuata dagli anni Settanta e la sua subordinazione alle ragioni del libero mercato, o come la modernizzazione dei processi produttivi e il declino della coscienza di classe dei lavoratori in favore di un approccio individualista.
In conclusione, per rimuovere gli ostacoli di ordine economico che impediscono il raggiungimento di un' uguaglianza sociale tra i cittadini, l'unica soluzione per i lavoratori sembra essere quella di tornare ad aggregarsi all'interno di nuove forme di autorganizzazione e combattere unitamente per i loro diritti, annullando così gli effetti nocivi della frammentazione del lavoro.
di Giovanni Tucci e Valerio Orlandi